Marina Arensi - VITO VACCARO

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L'intimismo di Vito Vaccaro

di Marina Arensi


Era l'autunno del 1929, quando il nome di Vito Vaccaro comparve nelle cronache d'arte lodigiane. Una mostra alla Camera di Commercio, allora in via XX Settembre, riuniva insieme alle sue sculture e ai disegni i dipinti di Sandro Zenatello e le incisioni di Dante Broglio: un'iniziativa pressoché unica nel clima autarchico di celebrazione locale, che allargava lo sguardo oltre i confini territoriali. “Ci domandavamo se di tanto in tanto non sarebbe possibile organizzare qualche mostra extracittadina che possa metterci al corrente delle ultime produzioni artistiche …” scrive “Il Cittadino” registrando la riuscita della rassegna appena conclusa. I tre autori hanno tutti pregresse partecipazioni a eventi espositivi di rilievo nazionale e la realizzazione della mostra si deve a Broglio, a quel tempo insegnante presso il locale Istituto Tecnico e veronese come l'amico Zenatello, convocato per l'occasione.

Così avviene anche per Vito Vaccaro, “una presenza a Lodi” al termine di un decennio che aveva visto le esposizioni d'arte divenire in città un fatto meno occasionale. La Mostra Artistica Circondariale aveva tracciato per la prima volta nel 1925 una ricognizione del panorama locale, prorogata per il successo di pubblico e chiusa con oltre la metà di opere vendute; e la nascita della “Permanente Lodigiana” avviava quel processo che avrebbe gradualmente offerto un più sistematico avvicinamento all'arte come componente irrinunciabile della proposta culturale.

La mostra alla chiesa di San Cristoforo riporta dunque a Lodi, a ottantacinque anni di distanza, una figura che ha incontrato quella temperie; e il fascino della scoperta che recupera un tassello sconosciuto della nostra storia si associa in questo caso al piacere della conoscenza di un artista che ha impersonato il suo tempo con la fedeltà a un intimo credo: lontano dallo sterile accademismo come dalle esperienze di avanguardia, a guidarlo è stata la serietà di una antica coscienza di artista.
     
All'epoca della mostra lodigiana, Vito Vaccaro vive a Milano dove si è trasferito da Palermo all'indomani della prima guerra mondiale. Nel capoluogo siciliano era nato nel 1887, frequentandovi in seguito l'Accademia di Belle Arti; allievo per la scultura di Mario Rutelli, tra gli importanti scultori italiani tra Ottocento e Novecento, trova nell'arte plastica il primo mezzo di espressione.

E' sotto questo aspetto creativo che Vaccaro scelse di presentarsi a Lodi, come tre anni prima aveva fatto alla XV Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia, invitato dagli scultori Leonardo Bistolfi e Libero Andreotti; anche se proprio in quegli anni il suo pensiero aveva cominciato ad aprirsi alla pittura che avrebbe poi assunto un ruolo sempre più dominante, fino a diventare forma privilegiata. Le cronache lodigiane del tempo segnalano l'interesse del pubblico per i disegni di Vaccaro e soprattutto per i bronzi dove “sa rendere con sicurezza e vita ciò che gli si presenta all'occhio”. “Bimba con il cerchio”, ”Portatrice d'uva”, “Maternità” e “Offerta” sono alcune delle sculture di quella mostra lontana che ritroviamo ora esposte nel tempio tardo cinquecentesco del Tibaldi, insieme al “Bimbo che ride”, acquisito nel 1929 dal Museo di Lodi e ancora oggi parte delle sue collezioni.

L'orientamento verso un realismo con radici nella cultura meridionale è all'origine delle piccole sculture di Vaccaro, la parte migliore della sua produzione plastica che privilegia lo studio del vero di aspetti intimistici e quotidiani. La sicura freschezza del modellato già oggetto a Palermo di riconoscimenti trova felici espressioni nelle figure, nei bozzetti e nei busti. Ritratti con ritmo misurato e sobria espressività, pur nell'intento descrittivo sempre lontano però dal compiacimento retorico, intrattengono tenaci legami con la tradizione tardo ottocentesca. Ma si scorgono anche caute aperture al modernismo, nelle superfici ondulate di oggetti decorativi e nella produzione commemorativa; o accenni di ricordo tardo scapigliato, impresso nel modellato a movimentare con vibrazioni di luce l'impianto classico dei ritratti.

Sarà l'ambiente milanese degli anni Venti a fare da sfondo per Vaccaro al maturare della scelta della pittura, quando lo studio di Largo Treves nella zona di Brera diventa luogo di incontri e prende avvio il suo percorso di insegnante d'arte e poi di preside. Come pittore si esprimerà fino agli ultimi anni Cinquanta della malattia e della decisione di chiudere lo studio, distruggendo i gessi e il materiale documentativo del suo percorso, ricostruito per la prima volta nel 2009 da Domenico Montalto. La scultura tornerà specie nei lavori su commissione destinati al grande museo a cielo aperto del Cimitero Monumentale; ma è la passione del dipingere ad avvincere da quei primi decenni del secolo la sensibilità di Vaccaro, catturata dagli scorci della città che vive intorno a lui e  trasposta nei cromatismi di “Il naviglio a San Marco” del 1926, tra i suoi più antichi dipinti sopravvissuti.

Nella Milano di quegli anni che vede affermarsi le esperienze di Novecento e l'apertura delle gallerie alla vivacità europea, Ambrogio Alciati e l'intonazione post-romantica della sua pittura formano dalla cattedra di Brera un'intera generazione di pittori. A questo clima si avvicina anche Vaccaro, concentrando la sua attenzione sulla luce degli interni, scenario della vena intimista che ovatta le nature morte e le figure ambientate, in scene che riprendono i motivi sviluppati in ambito plastico: è questo l'unico apparentamento tra i due linguaggi, non ravvisandosi nei dipinti note  riconducibili alla personalità di scultore. Caldi impasti di colore creano le atmosfere vaporose dove gli oggetti dai contorni indeterminati e i soffici mazzi di fiori vivono momenti di poeticità quotidiana, la stessa che percorre le scene degli interni, brani di memoria soffusi nella polvere del tempo di intatta fragranza cromatica.

Degli anni Trenta, intensificato nei successivi decenni, è il ritorno all'interesse per il paesaggio, quello dei laghi lombardi e della costa ligure delle vacanze familiari. La pennellata diviene qui più rapida e movimentata nella morbida pastosità dei toni anche ribassati. Ma saranno soprattutto le vedute dell'amata Milano negli anni Cinquanta gli interpreti prediletti dei quadri di Vaccaro fino al termine della sua vicenda. Le immagini dei Navigli e della Darsena, di piazza Duomo e delle strade circostanti registrano lo spirito di una città in cambiamento nelle velature atmosferiche dove il pittore restituisce la sua visione di un'epoca.
Scomparirà il 12 maggio 1960.
Già nell'aria, le ventate dei rapidi mutamenti che avrebbero trasformato la città e la nostra storia.



maggio 2014

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